Ritorno all’essenziale di Carlo Bellieni (Oss Romano del 10 giugno 2012)
La medicina fa i conti con la crisi: le risorse si riducono, le domande diventano meno legate ai capricci ed è sempre più chiaro il divario tra quello che la sanità offre e ciò che realmente serve. In primo luogo i conti devono farli i medici. Sul «New York Times » del 5 giugno un commento sostiene che i medici prescrivono troppi esami, forse per profitto o a causa di una certa cultura che sopravvaluta le proprie esperienze tenendo in poco conto protocolli e letteratura scientifica. Ma anche — si può aggiungere — per un indulgere a ogni richiesta del pubblico, e a motivo dell’alto tasso di denunce per insuccessi scambiati per colpe (oltre otto miliardi di dollari l’anno di risarcimenti per errori medici negli Stati Uniti). A proposito di quest’ultimo dato, l’«American Journal of Ortopedics » riporta che il 96 per cento dei medici ammette di aver prescritto per paura di denunce esami che non hanno utilità per i pazienti. Questo fatto ha conseguenze economiche immaginabili. Certo non rappresenta tutto il mondo medico — ci sono forti resistenze a questa tendenza — ma indica un disagio legato a una medicina consumista e ormai conflittuale. In secondo luogo, i conti deve farli la sanità mondiale, che deve ritrovare le vere priorità: meno peso alla medicina dei capricci, più ricerca e investimenti per le malattie rare, per le pandemie del terzo mondo e per la cura delle fasce più deboli. Lo hanno chiesto di recente Mencap, l’associazione britannica per disabili mentali, e la rivista «Lancet», secondo la quale per il sistema sanitario costoro sono ormai diventati invisibili, perché difficili da comprendere e gestire. Ma soprattutto i conti li deve fare la cultura, perché i medici ormai hanno un rapporto critico col proprio lavoro. «Perché i medici non sono felici?» si chiedeva il «British Medical Journal», spiegando: «I medici sono tristi. Non tutti sono sempre tristi, ma quando si riuniscono, la loro conversazione verte su lamentele e desideri di precoce pensionamento». Già, il logoramento cresce: depressione, disillusione, senso di impotenza, forse perché la medicina ha perso il suo slancio; gli ospedali sono aziende, i malati “utenza” e il medico ovviamente un “fornitore di servizi”. Si manifestano allora, soprattutto nei periodi di pieno consumismo, derive che non portano vera soddisfazione a chi cura. Cresce la medicina dei desideri, per la quale si va dal medico come al supermercato; e cresce la medicina commerciale, il disease mongering per il quale certe case farmaceutiche trasformano condizioni normali come la timidezza o la calvizie in malattie per creare allarme e vendere farmaci, come denunciato più volte dalla rivista «Plos Medicine». Ma in tempo di crisi sembrano crollare certe pretese ed eccessi, e bisogna ritornare all’essenziale. Ci si accorge allora che curare non significa seguire i capricci di futuribili manipolazioni genetiche o di altre richieste stravaganti, ma “prendere a cuore”; e non interessarsi solo di un particolare, come vorrebbe qualche mansionario, ma di tutta la persona. Lo suggerisce il verbo inglese to heal (“g u a r i re ”), che ha la stessa radice etimologica di whole (“integrale”). La medicina non si arrende quando la malattia non è più guaribile, perché resta la possibilità di curare la persona. La salute è la soddisfazione personale, che certo non è preclusa al disabile, come invece vorrebbe una certa cultura della perfezione consumista che ha dimenticato cosa vuol dire davvero “salute” e la confonde con un utopico completo benessere.