Che brutta Italia, quella in cui si festeggia un nuovo “rivoluzionario” metodo per sopprimere la vita. Fugati i dubbi sulla pericolosità di questa pillola, e spero sia davvero così altrimenti l’Aifa avrebbe delle responsabilità enormi sulle potenziali conseguenze per le donne italiane, resta la totale negatività del messaggio culturale ricompreso nella diffusione della Ru 486. Continuiamo a preoccuparci politicamente ed a speculare economicamente su come impedire la vita nella maniera più redditizia, comoda ed indolore possibile, piuttosto che occuparci seriamente di come favorirla. Non credo sia questo il testimone migliore da lasciare in eredità alle giovani generazioni.
giorgia meloni
La vita è la scelta che non si rimpiange mai. Aiutiamo le mamme a scegliere per la vita,offrendo loro assistenza a 360 gradi, prima, durante e dopo il parto. Assistenza concreta anche per il post aborto. Facciamo formazione alla bioetica, educazione alla sessualità ed organizziamo corsi di formazione e di educazione alla vita. Se hai bisogno chiamaci attivi 24 ore su 24 al 0650514441.
venerdì 31 luglio 2009
giovedì 30 luglio 2009
A FIANCO DELLE DONNE CONTRO LA RU486
Il Centro di aiuto alla vita di Roma a fianco delle donne contro la Ru486 (29 luglio 29009)
Il dibattito di questi giorni sulla re-introduzione della RU486 in Italia, la pillola per l’aborto farmacologico da prendere entro il 49esimo giorno dall’ultima mestruazione, mi ha riportato alla mente un significativo esempio della gente di strada accadutomi nel lontano 1991. Ero un ragazzotto allora che osservava allibito alla prima guerra del Golfo, quella di Desert Storm, quella delle bombe intelligenti. Ricordo che nel “chiacchiericcio” del bar su questo argomento intervenne un caro amico del mio paese, idraulico, che disse riferendosi alle tanto sponsorizzate bombe: “Saranno pure intelligenti ma uccidono sempre le persone”. Sintesi perfetta della seppur mistificata verità. E’ proprio vero: la persona irachena, l’essere umano iracheno che si vede arrivare in testa la bomba intelligente non si ferma a sottolinearne “l’intelligenza” ma scappa perché c’è di mezzo la sua vita. Credo che l’esempio possa essere riportato pure per la questione della Ru486. In un dibattito televisivo con Silvio Viale (promotore della re-introduzione della pillola) e Daniele Capezzone, qualche anno fa, alla fine il conduttore mi chiese: allora Gibertini, meglio l’aborto tradizionale o quello farmacologico? Meglio nessun aborto, risposi ma non penso di essere stato un genio, ho tratto solamente le logiche conseguenze: due modi diversi di uccidere una persona. Se vi chiedessi che per la già citata guerra in Irak è meglio, per sterminare gli iracheni, usare il gas nervino o le bombe intelligenti voi potreste fare una scelta?
Parlo di re-introduzione della Ru486 perché pochi ricordano, in questi giorni, che la medesima pillola fu provata anche agli inizi degli anni 90 ma poi successivamente ritirata dal commercio perché in alcuni casi aveva provocato gravi conseguenze emorragiche alle donne.
Sento parlare, e sorrido amaramente, che questo sistema è migliore per le donne perché non saranno costrette al ricovero, alla anestesia ed alla sempre pericolosa operazione chirurgica. Il sorriso amaro è dovuto al fatto che solo in questo momento si parla di quanto sia doloroso per la donna l’aborto e si cerca, guarda il caso, di “indorare la pillola”. Però mi domando, e domando, quanto sarà ancor più difficile l’elaborazione del lutto per la madre autrice, in due momenti distinti, della soppressione del figlio. Scusateci ma noi del Centro di Aiuto alla vita di Roma siamo a fianco delle mamme che abortiscono ogni giorno, purtroppo, e sappiamo quanto sia presente la sindrome post aborto in generazioni di mamme che si sono sottoposte all’operazione chirurgica operata da un medico, quindi da un terzo soggetto. Ora sarà la madre a dover prendere una prima pillola che ucciderà il bambino vivente in lei ed a distanza di due giorni la seconda che porterà all’espulsione del bambino abortito: forse la chiameranno anche “pillola intelligente!” ma quanto sarà difficile per la mamma… andare oltre!
Il fatto triste e che vede un rinnegarsi delle femministe è che si è passati in trenta anni dal volere una legge per socializzare il problema dell’aborto e per evitare che le madri non morissero per via di improvvisate operazioni chirurgiche, ad una cultura della banalizzazione dell’aborto che ha aumentato il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza in questi anni e che ora riduce tutto al semplice ingerire due pillole: diseducazione totale verso la vita e verso le nuove generazioni.
Questo fatto mi preoccupa perché ancora di più denota il fallimento della legge 194, quasi dovunque neanche applicata e perché la nostra nazione dovrebbe investire di più per distinguersi nel salvare la vita umana ed aiutare le famiglie e le giovani madri, non gloriarsi del fatto che nei prossimi anni 400 bambini saranno uccisi non per via chirurgica ma per via farmacologica… chissà se questi bambini sono contenti della novità.
Diciamolo chiaro e con forza.
La Ru486 non è una medicina. Non cura alcuna malattia. Non aiuta la vita, la stronca sul nascere. La Ru486 non è amichevole nei confronti delle donne. Non realizza in alcun modo un aborto indolore, posto che sia possibile realizzarlo. E' al contrario un sistema abortivo altamente controverso anche dal punto di vista della sua sicurezza ed efficienza clinica. Più importante ancora, la pillola abortiva tende a deresponsabilizzare il sistema medico, e a ridurlo a dispensario di veleni, e lascia sole le donne, inducendole a una sofferenza fisica e psichica prolungata e domestica, molto simile alle vecchie procedure dell'aborto clandestino. Per queste ragioni etiche siamo contrari alla pillola Ru486 e alla sua introduzione in Italia, anche perché la sua utilizzazione è incompatibile con le norme della legge 194/1978. E pensiamo che occorra fare di tutto, ciascuno nelle forme pertinenti il proprio ruolo, per impedirla. Jerome Lejeune, noto genetista scopritore della sindrome di Down, definì la Ru486 come un “pesticida umano”.
Pesticida umano: dobbiamo aggiungere altro?
La dottoressa Catherine Lennon, presidente di Doctors for Life dello stato del New South Wales, ha definito la RU-486 un “pesticida umano” altamente tossico, osservando che esso provoca gravi malformazioni fisiche nei bambini che sopravvivono ai suoi effetti e che può causare gravi danni fisici e psicologici alle donne che si trovano da sole a casa a dover partorire un bambino di 6 o 12 settimane di età.
Dove sono le femministe a bloccare questa pillola che uccide il figlio ed inquina, a volte anche mortalmente, il loro corpo, il grembo che dovrebbe accogliere la vita?
Dove sono gli ecologisti o quelli che fanno il doping nelle gare ciclistiche, a scandalizzarsi contro questo “pesticida” che attacca la donna e li altera per sempre in modo innaturale.
Siamo per la vita, siamo per le donne, siamo per la natura ma soprattutto per la verità.
Il dibattito di questi giorni sulla re-introduzione della RU486 in Italia, la pillola per l’aborto farmacologico da prendere entro il 49esimo giorno dall’ultima mestruazione, mi ha riportato alla mente un significativo esempio della gente di strada accadutomi nel lontano 1991. Ero un ragazzotto allora che osservava allibito alla prima guerra del Golfo, quella di Desert Storm, quella delle bombe intelligenti. Ricordo che nel “chiacchiericcio” del bar su questo argomento intervenne un caro amico del mio paese, idraulico, che disse riferendosi alle tanto sponsorizzate bombe: “Saranno pure intelligenti ma uccidono sempre le persone”. Sintesi perfetta della seppur mistificata verità. E’ proprio vero: la persona irachena, l’essere umano iracheno che si vede arrivare in testa la bomba intelligente non si ferma a sottolinearne “l’intelligenza” ma scappa perché c’è di mezzo la sua vita. Credo che l’esempio possa essere riportato pure per la questione della Ru486. In un dibattito televisivo con Silvio Viale (promotore della re-introduzione della pillola) e Daniele Capezzone, qualche anno fa, alla fine il conduttore mi chiese: allora Gibertini, meglio l’aborto tradizionale o quello farmacologico? Meglio nessun aborto, risposi ma non penso di essere stato un genio, ho tratto solamente le logiche conseguenze: due modi diversi di uccidere una persona. Se vi chiedessi che per la già citata guerra in Irak è meglio, per sterminare gli iracheni, usare il gas nervino o le bombe intelligenti voi potreste fare una scelta?
Parlo di re-introduzione della Ru486 perché pochi ricordano, in questi giorni, che la medesima pillola fu provata anche agli inizi degli anni 90 ma poi successivamente ritirata dal commercio perché in alcuni casi aveva provocato gravi conseguenze emorragiche alle donne.
Sento parlare, e sorrido amaramente, che questo sistema è migliore per le donne perché non saranno costrette al ricovero, alla anestesia ed alla sempre pericolosa operazione chirurgica. Il sorriso amaro è dovuto al fatto che solo in questo momento si parla di quanto sia doloroso per la donna l’aborto e si cerca, guarda il caso, di “indorare la pillola”. Però mi domando, e domando, quanto sarà ancor più difficile l’elaborazione del lutto per la madre autrice, in due momenti distinti, della soppressione del figlio. Scusateci ma noi del Centro di Aiuto alla vita di Roma siamo a fianco delle mamme che abortiscono ogni giorno, purtroppo, e sappiamo quanto sia presente la sindrome post aborto in generazioni di mamme che si sono sottoposte all’operazione chirurgica operata da un medico, quindi da un terzo soggetto. Ora sarà la madre a dover prendere una prima pillola che ucciderà il bambino vivente in lei ed a distanza di due giorni la seconda che porterà all’espulsione del bambino abortito: forse la chiameranno anche “pillola intelligente!” ma quanto sarà difficile per la mamma… andare oltre!
Il fatto triste e che vede un rinnegarsi delle femministe è che si è passati in trenta anni dal volere una legge per socializzare il problema dell’aborto e per evitare che le madri non morissero per via di improvvisate operazioni chirurgiche, ad una cultura della banalizzazione dell’aborto che ha aumentato il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza in questi anni e che ora riduce tutto al semplice ingerire due pillole: diseducazione totale verso la vita e verso le nuove generazioni.
Questo fatto mi preoccupa perché ancora di più denota il fallimento della legge 194, quasi dovunque neanche applicata e perché la nostra nazione dovrebbe investire di più per distinguersi nel salvare la vita umana ed aiutare le famiglie e le giovani madri, non gloriarsi del fatto che nei prossimi anni 400 bambini saranno uccisi non per via chirurgica ma per via farmacologica… chissà se questi bambini sono contenti della novità.
Diciamolo chiaro e con forza.
La Ru486 non è una medicina. Non cura alcuna malattia. Non aiuta la vita, la stronca sul nascere. La Ru486 non è amichevole nei confronti delle donne. Non realizza in alcun modo un aborto indolore, posto che sia possibile realizzarlo. E' al contrario un sistema abortivo altamente controverso anche dal punto di vista della sua sicurezza ed efficienza clinica. Più importante ancora, la pillola abortiva tende a deresponsabilizzare il sistema medico, e a ridurlo a dispensario di veleni, e lascia sole le donne, inducendole a una sofferenza fisica e psichica prolungata e domestica, molto simile alle vecchie procedure dell'aborto clandestino. Per queste ragioni etiche siamo contrari alla pillola Ru486 e alla sua introduzione in Italia, anche perché la sua utilizzazione è incompatibile con le norme della legge 194/1978. E pensiamo che occorra fare di tutto, ciascuno nelle forme pertinenti il proprio ruolo, per impedirla. Jerome Lejeune, noto genetista scopritore della sindrome di Down, definì la Ru486 come un “pesticida umano”.
Pesticida umano: dobbiamo aggiungere altro?
La dottoressa Catherine Lennon, presidente di Doctors for Life dello stato del New South Wales, ha definito la RU-486 un “pesticida umano” altamente tossico, osservando che esso provoca gravi malformazioni fisiche nei bambini che sopravvivono ai suoi effetti e che può causare gravi danni fisici e psicologici alle donne che si trovano da sole a casa a dover partorire un bambino di 6 o 12 settimane di età.
Dove sono le femministe a bloccare questa pillola che uccide il figlio ed inquina, a volte anche mortalmente, il loro corpo, il grembo che dovrebbe accogliere la vita?
Dove sono gli ecologisti o quelli che fanno il doping nelle gare ciclistiche, a scandalizzarsi contro questo “pesticida” che attacca la donna e li altera per sempre in modo innaturale.
Siamo per la vita, siamo per le donne, siamo per la natura ma soprattutto per la verità.
mercoledì 29 luglio 2009
Discorso del Card. Bertone al Senato italiano sulla “Caritas in veritate”
Discorso del Card. Bertone al Senato italiano sulla “Caritas in veritate”
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, di fronte al Senato della Repubblica Italiana a presentazione della Lettera enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.
* * *
L'enciclica di Benedetto XVI si apre con un'Introduzione, che costituisce una densa e profonda riflessione nella quale vengono ripresi i termini del titolo stesso il quale coniuga fra loro strettamente la caritas e la veritas, l'amore e la verità. Si tratta non solo di una sorta di explicatio terminorum, di un chiarimento iniziale, ma si vogliono indicare i principi e le prospettive fondamentali di tutto il suo insegnamento. Infatti, come in una sinfonia, il tema della verità e della carità ritorna poi lungo tutto il documento, proprio perché qui sta, come scrive il Papa, "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera" (Caritas in veritate, n. 1).
Ma - ci chiediamo - di quale verità e di quale amore si tratta? Non v'è dubbio che proprio questi concetti suscitino oggi sospetto - soprattutto il termine verità - o siano oggetto di fraintendimento - e ciò vale soprattutto per il termine "amore". Per questo è importante chiarire di quale verità e di quale amore parli la nuova enciclica. Il Santo Padre ci fa comprendere che queste due realtà fondamentali non sono estrinseche all'uomo o addirittura imposte a lui in nome di una qualsivoglia visione ideologica, ma hanno un profondo radicamento nella persona stessa. Infatti, "amore e verità - afferma il Santo Padre - sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo" (n. 1), di quell'uomo che, secondo la Sacra Scrittura, è appunto creato "ad immagine e somiglianza" del suo Creatore, cioè del "Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola" (n. 3).
Questa realtà ci è testimoniata non solo dalla Rivelazione biblica, ma può essere colta da ogni uomo di buona volontà che usa rettamente della sua ragione nel riflettere su se stesso ("La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità", n. 3). A questo riguardo, sembrano illustrare bene tale visione alcuni contenuti di un significativo ed importante documento che ha di poco preceduto la pubblicazione della Caritas in veritate: la Commissione Teologica Internazionale ci ha dato nei mesi scorsi un testo intitolato Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale. Esso affronta delle tematiche di grande importanza, che mi sento di segnalare e raccomandare specialmente in questo contesto del Senato, cioè di una istituzione che ha come funzione precipua la produzione normativa. Infatti, come disse all'Assemblea delle Nazioni Unite a New York il Santo Padre, durante la sua visita dello scorso anno al Palazzo di Vetro a proposito del fondamento dei diritti umani: "Questi diritti trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dell'uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e l'interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose" (18 aprile 2008). Sono considerazioni che valgono non solo per i diritti dell'uomo, ma per ogni intervento dell'autorità legittima chiamata a regolare secondo vera giustizia la vita della comunità mediante delle leggi che non siano frutto di una mera intesa convenzionale, ma mirino all'autentico bene della persona e della società e per questo facciano riferimento a questa legge naturale.
Orbene, la Commissione Teologica Internazionale nell'esporre la realtà della legge naturale illustra proprio come la verità e l'amore siano esigenze essenziali di ogni uomo, profondamente radicate nel suo essere. "Nella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua natura" (Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, n. 45), le quali inclinano l'uomo verso dei beni necessari alla sua realizzazione morale. Come è noto, "si distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali (...) Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l'inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l'inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l'inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società" (n. 46). Approfondendo questo terzo dinamismo che si ritrova in ogni persona, la Commissione Teologica Internazionale afferma che esso "è specifico dell'essere umano come essere spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia (...) Il suo bene integrale è così intimamente legato alla vita in comunità, che si organizza in società politica in forza di un'inclinazione naturale e non di una semplice convenzione. Il carattere relazionale della persona si esprime anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o l'Assoluto (...)
Certamente, può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere l'esistenza di un Dio personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del senso presente in ogni essere umano" (n. 50).
L'uomo è dunque fatto per conoscere mediante la "ragione allargata" (cfr. Discorso del 12 settembre 2006 all'università di Regensburg) la verità in tutta la sua ampiezza, cioè non limitandosi ad acquisire conoscenze tecniche per dominare la realtà materiale, ma aprendosi fino ad incontrare il Trascendente, e per vivere pienamente la dimensione interpersonale dell'amore, "principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici" (Caritas in veritate, n. 2). Sono proprio la veritas e la caritas che ci indicano le esigenze della legge naturale che Benedetto XVI pone come criterio fondamentale della riflessione di ordine morale sull'attuale realtà socio-economica: "Caritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale" (n. 6).
Con efficace espressione, il Santo Padre afferma perciò che "la dottrina sociale della Chiesa (...) è caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità" (n. 5).
La proposta dell'enciclica non è né di carattere ideologico né solo riservata a chi condivide la fede nella Rivelazione divina, ma si fonda su realtà antropologiche fondamentali, quali sono appunto la verità e la carità rettamente intese, o come dice la stessa enciclica, date all'uomo e da lui ricevute, non da lui prodotte arbitrariamente ("La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto "data". In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, "non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano"", Caritas in veritate, n. 34). Benedetto XVI vuol ricordare a tutti che solo ancorandosi a questo duplice criterio della veritas e della caritas, fra loro inseparabilmente congiunte, si può costruire l'autentico bene dell'uomo, fatto per la verità e l'amore. Secondo il Santo Padre, "solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (n. 9).
Dopo questa indispensabile premessa, nella quale ho voluto evidenziare alcuni aspetti antropologici e teologici del testo pontificio, forse meno commentati dai servizi giornalistici, desidero esporre ora solo alcuni punti, senza avere la pretesa di coprire il vasto contenuto dell'enciclica, di cui, peraltro, autorevoli commentatori, anche sulle pagine de "L'Osservatore Romano" o altrove, hanno già offerto specifici approfondimenti.
Un importante messaggio che ci viene dalla Caritas in veritate è l'invito a superare l'ormai obsoleta dicotomia tra la sfera dell'economico e la sfera del sociale. La modernità ci ha lasciato in eredità l'idea in base alla quale per poter operare nel campo dell'economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si dovrebbe accontentare di far parte della sfera del sociale.
Questa concettualizzazione, che confonde l'economia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico, ha portato ad identificare l'economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per un'equa distribuzione della stessa.
La Caritas in veritate ci dice, invece, che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all'azione da motivazioni di tipo pro-sociale. È questo un modo concreto, anche se non l'unico, di colmare il divario tra l'economico e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre.
Si deve essere particolarmente grati a Benedetto XVI per aver voluto sottolineare il fatto che l'agire economico non è qualcosa di staccato e di alieno dai principi cardine della dottrina sociale della Chiesa che sono: centralità della persona umana; solidarietà; sussidiarietà; bene comune.
Occorre superare la concezione pratica in base alla quale i valori della dottrina sociale della Chiesa dovrebbero trovare spazio unicamente nelle opere di natura sociale, mentre agli esperti di efficienza spetterebbe il compito di guidare l'economia. È merito, certamente non secondario, di questa enciclica quello di contribuire a porre rimedio a questa lacuna, che è culturale e politica ad un tempo.
Contrariamente a quel che si pensa non è l'efficienza il fundamentum divisionis per distinguere ciò che è impresa e ciò che non lo è, e questo per la semplice ragione che la categoria dell'efficienza appartiene all'ordine dei mezzi e non a quello dei fini. Infatti, si deve essere efficienti per conseguire al meglio il fine che liberamente si è scelto di dare alla propria azione. L'imprenditore che si lascia guidare da un'efficienza fine a se stessa rischia di scadere nell'efficientismo, che è una delle cause oggi più frequenti di distruzione della ricchezza, come la crisi economico-finanziaria in atto tristemente conferma.
Ampliando un istante la prospettiva del discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non c'è pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non v'è chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la dialettica che presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non c'è movimento, ma il movimento - ecco il punto - cui la tensione dà luogo può essere anche mortifero, cioè generatore di morte.
Quando lo scopo dell'agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo - come l'etimo latino cum-petere lascerebbe chiaramente intendere - ma l'hobbesiana mors tua, vita mea, il legame sociale viene ridotto al rapporto mercantile e l'attività economica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente. Dunque, anche nella competizione, la "dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o "dopo" di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente" (n. 36).
Ebbene, il guadagno, certo non da poco, che la Caritas in veritate ci offre è quello di prendere in grande considerazione quella concezione del mercato, tipica della tradizione di pensiero dell'economia civile, secondo cui si può vivere l'esperienza della socialità umana all'interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa. È questa una concezione che si potrebbe definire alternativa, sia rispetto a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in grado di dare soluzione a tutti i problemi della società.
Questo modo di fare impresa si differenzia nei confronti dell'economia di tradizione smithiana che vede il mercato come l'unica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La dottrina sociale della Chiesa ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o "controllato", ma è visto come momento importante della sfera pubblica - sfera che è assai più vasta di ciò che è statale - che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costruire una sana convivenza civile.
Prendo ora in considerazione uno dei temi presenti nell'enciclica che mi pare abbia suscitato un certo interesse pubblico per la novità che rivestono i principi di fraternità e di gratuità nell'agire economico. "Lo sviluppo, se vuole essere autenticamente umano", dice Benedetto XVI , deve "fare spazio al principio di gratuità" (n. 34). Servono "forme economiche solidali". Significativo, in questo senso il capitolo dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" per cui "un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione". E ancora: "Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace" (nn. 53-54).
La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo, che costituisce il complemento e l'esaltazione del principio di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali per via della loro uguale dignità e dei loro diritti fondamentali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi, nel senso di poter esprimere diversamente il loro piano di vita o il loro carisma.
Esplicito meglio: le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l'Ottocento e soprattutto il Novecento, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che una società orientata al bene comune non può accontentarsi della solidarietà, ma ha bisogno di una solidarietà che rispecchi la fraternità dato che, mentre la società fraterna è anche solidale, il contrario non è necessariamente vero.
Se si dimentica il fatto che non è sostenibile una società di esseri umani in cui viene meno il senso di fraternità e in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti o ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci si rende conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. La Caritas in veritate ci aiuta a prendere coscienza che la società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire se esiste e si sviluppa solamente la logica del "dare per avere" oppure del "dare per dovere". Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.
Ci si pone allora la domanda: perché riemerge come un fiume carsico, la prospettiva del bene comune, secondo la formulazione ad essa data dalla dottrina sociale della Chiesa, dopo almeno un paio di secoli durante i quali essa era di fatto uscita di scena? Perché il passaggio dai mercati nazionali al mercato globale, consumatosi nel corso dell'ultimo quarto di secolo, va rendendo di nuovo attuale il discorso sul bene comune? Osservo, di sfuggita, che quanto accade è parte di un più vasto movimento di idee in economia, un movimento il cui oggetto è il legame tra religiosità e performance economica. A partire dalla considerazione che le credenze religiose sono di importanza decisiva nel forgiare le mappe cognitive dei soggetti e nel plasmare le norme sociali di comportamento, questo movimento di idee cerca di indagare quanto la prevalenza in un determinato Paese (o territorio) di una certa matrice religiosa influenzi la formazione di categorie di pensiero economico, i programmi di welfare, la politica scolastica e così via. Dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale la celebre tesi della secolarizzazione pareva avesse detto la parola fine sulla questione religiosa, almeno per quel che concerne il campo economico, quanto sta oggi accadendo suona veramente paradossale.
Non è così difficile spiegarsi il ritorno nel dibattito culturale contemporaneo della prospettiva del bene comune, vera e propria cifra dell'etica cattolica in ambito socio-economico. Come Giovanni Paolo ii in parecchie occasioni ha chiarito, la dottrina sociale della Chiesa non va considerata una teoria etica ulteriore rispetto alle tante già disponibili in letteratura, ma una "grammatica comune" a queste, perché fondata su uno specifico punto di vista, quello del prendersi cura del bene umano. Invero, mentre le diverse teorie etiche pongono il loro fondamento vuoi nella ricerca di regole (come succede nel giusnaturalismo positivistico, secondo cui l'etica viene derivata dalla norma giuridica) vuoi nell'agire (si pensi al neo-contrattualismo rawlsiano o al neo-utilitarismo), la dottrina sociale della Chiesa accoglie come suo punto archimedeo lo "stare con". Il senso dell'etica del bene comune, spiega che per poter comprendere l'azione umana, occorre porsi nella prospettiva della persona che agisce (Veritatis splendor, n. 78) e non nella prospettiva della terza persona (come fa il giusnaturalismo) ovvero dello spettatore imparziale (come Adam Smith aveva suggerito). Infatti il bene morale, essendo una realtà pratica, lo conosce primariamente non chi lo teorizza, ma chi lo pratica: è lui che sa individuarlo e quindi sceglierlo con certezza ogniqualvolta è in discussione.
Veniamo allora a parlare del principio del dono in economia. Cosa comporta, a livello pratico, l'accoglimento della prospettiva della gratuità entro l'agire economico? Risponde Papa Benedetto XVI che mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco" (Caritas in veritate, nn. 35-39). La conseguenza che discende dal riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella vita economica ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della reciprocità.
Assieme alla democrazia, la reciprocità - definita da Benedetto XVI "l'intima costituzione dell'essere umano" (n. 57) - è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo.
In quali "luoghi" la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Attorno alla propria famiglia si sviluppa quel rapporto donativo tipico della fraternità. Poi c'è la cooperativa, l'impresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un Paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. C'è oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esistono. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dell'albero della reciprocità sono destinate al declino, come la storia da tempo ci ha insegnato.
Qual è la funzione propria del dono? Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. Il Papa parla della "stupefacente esperienza del dono" (n. 34).
Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una obbligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e siamo tutti d'accordo sull'importanza della giustizia, ma la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell'agire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre la logica della giustizia è la logica dell'equivalenza. Ebbene, la Caritas in veritate ci dice che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che all'interno della prassi economica ci siano soggetti, che capiscano cosa sono i beni di gratuità, che si capisca, in altre parole, che abbiamo bisogno di far rifluire nei circuiti della nostra società il principio di gratuità.
Benedetto XVI invita a restituire il principio del dono alla sfera pubblica. Il dono autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell'identità personale sull'utile, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell'agire umano, ivi compresa l'economia. Il messaggio che la Caritas in veritate ci lascia è quello di pensare la gratuità, e dunque la fraternità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell'esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone.
La Caritas in veritate si sofferma sulle cause profonde (e non già sulle cause prossime) della crisi ancora in atto. Non è mia intenzione passarle in rassegna e mi limiterò a sintetizzare i tre principali fattori di crisi individuati e presi in esame.
Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell'ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, diversi Paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così l'economia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere d'acquisto; sulle imprese dell'economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l'azionista.
E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sull'intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale.
Il secondo fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell'ethos dell'efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l'avidità - che è la forma più nota e più diffusa di avarizia - come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. Greed is good, greed is right ("l'avidità è buona; l'avidità è giusta"), predicava Gordon Gekko, il protagonista del celebre film del 1987, Wall Street.
Infine, la Caritas in veritate non manca di soffermarsi sulla causa delle cause della crisi: le specificità della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sull'onda, da un lato, del processo di globalizzazione e, dall'altro, dall'avvento della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche. Un aspetto specifico di tale matrice riguarda l'insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l'autonomia, l'immunità, la capacitazione.
L'autonomia dice libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L'immunità, invece, dice assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. È, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la "libertà da"). La capacitazione, (letteralmente: capacità di azione) infine, dice capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita.
Come si può comprendere, la sfida da raccogliere è quella di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune appare come una prospettiva quanto mai interessante da esplorare.
Alla luce di quanto precede riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Ecco perché, senza nulla togliere agli indispensabili interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad impedire l'insorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene sulla matrice culturale che sorregge il sistema economico. Alle autorità di governo questa crisi lancia un duplice messaggio. In primo luogo, che la critica sacrosanta allo "Stato interventista" in nessun modo può valere a disconoscere il ruolo centrale dello "Stato regolatore". In secondo luogo, che le autorità pubbliche collocate ai diversi livelli di governo devono consentire, anzi favorire, la nascita e il rafforzamento di un mercato finanziario pluralista, un mercato cioè in cui possano operare in condizioni di oggettiva parità soggetti diversi per quanto concerne il fine specifico che essi attribuiscono alla loro attività. Penso alle banche del territorio, alle banche di credito cooperativo, alle banche etiche, ai vari fondi etici. Si tratta di enti che non solamente non propongono ai propri sportelli finanza creativa, ma soprattutto svolgono un ruolo complementare, e dunque equilibratore, rispetto agli agenti della finanza speculativa. Se negli ultimi decenni le autorità finanziarie avessero tolto i tanti vincoli che gravano sui soggetti della finanza alternativa, la crisi odierna non avrebbe avuto la potenza devastatrice che stiamo conoscendo.
Prima di concludere, desidero ringraziare il presidente del Senato della Repubblica Italiana, onorevole Schifani, per avermi consentito di illustrare a questo qualificato uditorio alcuni tratti dell'ultima enciclica di Benedetto XVI.
In qualche modo si tratta oggi come di un ritorno del Santo Padre in questa sede del Senato della Repubblica, ove l'allora cardinale Joseph Ratzinger tenne il 13 maggio 2004 nella Biblioteca del Senato stesso una non dimenticata lectio magistralis sul tema "Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani".
È interessante notare come in quell'intervento, tra l'altro, il futuro Pontefice toccava alcuni temi che ritroviamo oggi nella sua ultima enciclica. Pensiamo, ad esempio, all'affermazione della ragione profonda della dignità della persona e dei suoi diritti: essi - diceva l'allora cardinale Ratzinger - "non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, "ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore". Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all'uomo". Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ripete che "i diritti umani rischiano di non essere rispettati" quando "vengono privati del loro fondamento trascendente" (n. 56), cioè quando si dimentica che "Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità" (n. 29).
Ancora, nella lectio magistralis tenuta cinque anni or sono, l'attuale Pontefice ricordava che "un secondo punto in cui appare l'identità europea è il matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso ha dato all'Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e sofferenze.
L'Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata". Nella Caritas in veritate questo monito si allarga fino a divenire universale, diremmo globale, e raggiunge tutti responsabili della vita pubblica; così leggiamo, infatti, in essa: "Diventa (...) una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale" (n. 44).
Certo la Caritas in veritate si rivolge, come si afferma nel suo titolo ufficiale, a tutti i membri della Chiesa cattolica e "a tutti gli uomini di buona volontà". Eppure per i principi che illumina, per i problemi che affronta e per le indicazioni che offre, questo documento pontificio, che ha suscitato tanta attesa, prima, e poi tanta attenzione e tanto apprezzamento, in particolare in ambito sociale, politico ed economico, mi sembra che possa trovare una singolare eco in questa sede istituzionale che è il Senato della Repubblica. Sono convinto che, al di là delle differenze di formazione e di convinzioni personali, coloro che hanno la delicata e onorifica responsabilità di rappresentare il popolo italiano e di esercitare per suo mandato il potere legislativo, possono trovare nelle parole del Papa un'alta e profonda ispirazione nello svolgimento della loro missione, così da rispondere adeguatamente alle sfide etiche, culturali e sociali che oggi ci interpellano e che con grande lucidità e completezza l'enciclica Caritas in veritate ci pone davanti. Il mio augurio è che questo documento del Magistero ecclesiale, che ho cercato di illustrarvi almeno in parte quest'oggi, possa in questa sede trovare l'attenzione che merita e così portare frutti positivi e abbondanti per il bene di ogni persona e di tutta l'umana famiglia, a cominciare dalla cara Nazione italiana.
Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dal Cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, di fronte al Senato della Repubblica Italiana a presentazione della Lettera enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.
* * *
L'enciclica di Benedetto XVI si apre con un'Introduzione, che costituisce una densa e profonda riflessione nella quale vengono ripresi i termini del titolo stesso il quale coniuga fra loro strettamente la caritas e la veritas, l'amore e la verità. Si tratta non solo di una sorta di explicatio terminorum, di un chiarimento iniziale, ma si vogliono indicare i principi e le prospettive fondamentali di tutto il suo insegnamento. Infatti, come in una sinfonia, il tema della verità e della carità ritorna poi lungo tutto il documento, proprio perché qui sta, come scrive il Papa, "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera" (Caritas in veritate, n. 1).
Ma - ci chiediamo - di quale verità e di quale amore si tratta? Non v'è dubbio che proprio questi concetti suscitino oggi sospetto - soprattutto il termine verità - o siano oggetto di fraintendimento - e ciò vale soprattutto per il termine "amore". Per questo è importante chiarire di quale verità e di quale amore parli la nuova enciclica. Il Santo Padre ci fa comprendere che queste due realtà fondamentali non sono estrinseche all'uomo o addirittura imposte a lui in nome di una qualsivoglia visione ideologica, ma hanno un profondo radicamento nella persona stessa. Infatti, "amore e verità - afferma il Santo Padre - sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo" (n. 1), di quell'uomo che, secondo la Sacra Scrittura, è appunto creato "ad immagine e somiglianza" del suo Creatore, cioè del "Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola" (n. 3).
Questa realtà ci è testimoniata non solo dalla Rivelazione biblica, ma può essere colta da ogni uomo di buona volontà che usa rettamente della sua ragione nel riflettere su se stesso ("La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità", n. 3). A questo riguardo, sembrano illustrare bene tale visione alcuni contenuti di un significativo ed importante documento che ha di poco preceduto la pubblicazione della Caritas in veritate: la Commissione Teologica Internazionale ci ha dato nei mesi scorsi un testo intitolato Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale. Esso affronta delle tematiche di grande importanza, che mi sento di segnalare e raccomandare specialmente in questo contesto del Senato, cioè di una istituzione che ha come funzione precipua la produzione normativa. Infatti, come disse all'Assemblea delle Nazioni Unite a New York il Santo Padre, durante la sua visita dello scorso anno al Palazzo di Vetro a proposito del fondamento dei diritti umani: "Questi diritti trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dell'uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e l'interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose" (18 aprile 2008). Sono considerazioni che valgono non solo per i diritti dell'uomo, ma per ogni intervento dell'autorità legittima chiamata a regolare secondo vera giustizia la vita della comunità mediante delle leggi che non siano frutto di una mera intesa convenzionale, ma mirino all'autentico bene della persona e della società e per questo facciano riferimento a questa legge naturale.
Orbene, la Commissione Teologica Internazionale nell'esporre la realtà della legge naturale illustra proprio come la verità e l'amore siano esigenze essenziali di ogni uomo, profondamente radicate nel suo essere. "Nella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua natura" (Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, n. 45), le quali inclinano l'uomo verso dei beni necessari alla sua realizzazione morale. Come è noto, "si distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali (...) Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l'inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l'inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l'inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società" (n. 46). Approfondendo questo terzo dinamismo che si ritrova in ogni persona, la Commissione Teologica Internazionale afferma che esso "è specifico dell'essere umano come essere spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia (...) Il suo bene integrale è così intimamente legato alla vita in comunità, che si organizza in società politica in forza di un'inclinazione naturale e non di una semplice convenzione. Il carattere relazionale della persona si esprime anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o l'Assoluto (...)
Certamente, può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere l'esistenza di un Dio personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del senso presente in ogni essere umano" (n. 50).
L'uomo è dunque fatto per conoscere mediante la "ragione allargata" (cfr. Discorso del 12 settembre 2006 all'università di Regensburg) la verità in tutta la sua ampiezza, cioè non limitandosi ad acquisire conoscenze tecniche per dominare la realtà materiale, ma aprendosi fino ad incontrare il Trascendente, e per vivere pienamente la dimensione interpersonale dell'amore, "principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici" (Caritas in veritate, n. 2). Sono proprio la veritas e la caritas che ci indicano le esigenze della legge naturale che Benedetto XVI pone come criterio fondamentale della riflessione di ordine morale sull'attuale realtà socio-economica: "Caritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale" (n. 6).
Con efficace espressione, il Santo Padre afferma perciò che "la dottrina sociale della Chiesa (...) è caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità" (n. 5).
La proposta dell'enciclica non è né di carattere ideologico né solo riservata a chi condivide la fede nella Rivelazione divina, ma si fonda su realtà antropologiche fondamentali, quali sono appunto la verità e la carità rettamente intese, o come dice la stessa enciclica, date all'uomo e da lui ricevute, non da lui prodotte arbitrariamente ("La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto "data". In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, "non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano"", Caritas in veritate, n. 34). Benedetto XVI vuol ricordare a tutti che solo ancorandosi a questo duplice criterio della veritas e della caritas, fra loro inseparabilmente congiunte, si può costruire l'autentico bene dell'uomo, fatto per la verità e l'amore. Secondo il Santo Padre, "solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (n. 9).
Dopo questa indispensabile premessa, nella quale ho voluto evidenziare alcuni aspetti antropologici e teologici del testo pontificio, forse meno commentati dai servizi giornalistici, desidero esporre ora solo alcuni punti, senza avere la pretesa di coprire il vasto contenuto dell'enciclica, di cui, peraltro, autorevoli commentatori, anche sulle pagine de "L'Osservatore Romano" o altrove, hanno già offerto specifici approfondimenti.
Un importante messaggio che ci viene dalla Caritas in veritate è l'invito a superare l'ormai obsoleta dicotomia tra la sfera dell'economico e la sfera del sociale. La modernità ci ha lasciato in eredità l'idea in base alla quale per poter operare nel campo dell'economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si dovrebbe accontentare di far parte della sfera del sociale.
Questa concettualizzazione, che confonde l'economia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico, ha portato ad identificare l'economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per un'equa distribuzione della stessa.
La Caritas in veritate ci dice, invece, che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all'azione da motivazioni di tipo pro-sociale. È questo un modo concreto, anche se non l'unico, di colmare il divario tra l'economico e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre.
Si deve essere particolarmente grati a Benedetto XVI per aver voluto sottolineare il fatto che l'agire economico non è qualcosa di staccato e di alieno dai principi cardine della dottrina sociale della Chiesa che sono: centralità della persona umana; solidarietà; sussidiarietà; bene comune.
Occorre superare la concezione pratica in base alla quale i valori della dottrina sociale della Chiesa dovrebbero trovare spazio unicamente nelle opere di natura sociale, mentre agli esperti di efficienza spetterebbe il compito di guidare l'economia. È merito, certamente non secondario, di questa enciclica quello di contribuire a porre rimedio a questa lacuna, che è culturale e politica ad un tempo.
Contrariamente a quel che si pensa non è l'efficienza il fundamentum divisionis per distinguere ciò che è impresa e ciò che non lo è, e questo per la semplice ragione che la categoria dell'efficienza appartiene all'ordine dei mezzi e non a quello dei fini. Infatti, si deve essere efficienti per conseguire al meglio il fine che liberamente si è scelto di dare alla propria azione. L'imprenditore che si lascia guidare da un'efficienza fine a se stessa rischia di scadere nell'efficientismo, che è una delle cause oggi più frequenti di distruzione della ricchezza, come la crisi economico-finanziaria in atto tristemente conferma.
Ampliando un istante la prospettiva del discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non c'è pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non v'è chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la dialettica che presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non c'è movimento, ma il movimento - ecco il punto - cui la tensione dà luogo può essere anche mortifero, cioè generatore di morte.
Quando lo scopo dell'agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo - come l'etimo latino cum-petere lascerebbe chiaramente intendere - ma l'hobbesiana mors tua, vita mea, il legame sociale viene ridotto al rapporto mercantile e l'attività economica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente. Dunque, anche nella competizione, la "dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o "dopo" di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente" (n. 36).
Ebbene, il guadagno, certo non da poco, che la Caritas in veritate ci offre è quello di prendere in grande considerazione quella concezione del mercato, tipica della tradizione di pensiero dell'economia civile, secondo cui si può vivere l'esperienza della socialità umana all'interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa. È questa una concezione che si potrebbe definire alternativa, sia rispetto a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in grado di dare soluzione a tutti i problemi della società.
Questo modo di fare impresa si differenzia nei confronti dell'economia di tradizione smithiana che vede il mercato come l'unica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La dottrina sociale della Chiesa ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o "controllato", ma è visto come momento importante della sfera pubblica - sfera che è assai più vasta di ciò che è statale - che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costruire una sana convivenza civile.
Prendo ora in considerazione uno dei temi presenti nell'enciclica che mi pare abbia suscitato un certo interesse pubblico per la novità che rivestono i principi di fraternità e di gratuità nell'agire economico. "Lo sviluppo, se vuole essere autenticamente umano", dice Benedetto XVI , deve "fare spazio al principio di gratuità" (n. 34). Servono "forme economiche solidali". Significativo, in questo senso il capitolo dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" per cui "un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione". E ancora: "Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace" (nn. 53-54).
La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo, che costituisce il complemento e l'esaltazione del principio di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali per via della loro uguale dignità e dei loro diritti fondamentali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi, nel senso di poter esprimere diversamente il loro piano di vita o il loro carisma.
Esplicito meglio: le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l'Ottocento e soprattutto il Novecento, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che una società orientata al bene comune non può accontentarsi della solidarietà, ma ha bisogno di una solidarietà che rispecchi la fraternità dato che, mentre la società fraterna è anche solidale, il contrario non è necessariamente vero.
Se si dimentica il fatto che non è sostenibile una società di esseri umani in cui viene meno il senso di fraternità e in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti o ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci si rende conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. La Caritas in veritate ci aiuta a prendere coscienza che la società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire se esiste e si sviluppa solamente la logica del "dare per avere" oppure del "dare per dovere". Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.
Ci si pone allora la domanda: perché riemerge come un fiume carsico, la prospettiva del bene comune, secondo la formulazione ad essa data dalla dottrina sociale della Chiesa, dopo almeno un paio di secoli durante i quali essa era di fatto uscita di scena? Perché il passaggio dai mercati nazionali al mercato globale, consumatosi nel corso dell'ultimo quarto di secolo, va rendendo di nuovo attuale il discorso sul bene comune? Osservo, di sfuggita, che quanto accade è parte di un più vasto movimento di idee in economia, un movimento il cui oggetto è il legame tra religiosità e performance economica. A partire dalla considerazione che le credenze religiose sono di importanza decisiva nel forgiare le mappe cognitive dei soggetti e nel plasmare le norme sociali di comportamento, questo movimento di idee cerca di indagare quanto la prevalenza in un determinato Paese (o territorio) di una certa matrice religiosa influenzi la formazione di categorie di pensiero economico, i programmi di welfare, la politica scolastica e così via. Dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale la celebre tesi della secolarizzazione pareva avesse detto la parola fine sulla questione religiosa, almeno per quel che concerne il campo economico, quanto sta oggi accadendo suona veramente paradossale.
Non è così difficile spiegarsi il ritorno nel dibattito culturale contemporaneo della prospettiva del bene comune, vera e propria cifra dell'etica cattolica in ambito socio-economico. Come Giovanni Paolo ii in parecchie occasioni ha chiarito, la dottrina sociale della Chiesa non va considerata una teoria etica ulteriore rispetto alle tante già disponibili in letteratura, ma una "grammatica comune" a queste, perché fondata su uno specifico punto di vista, quello del prendersi cura del bene umano. Invero, mentre le diverse teorie etiche pongono il loro fondamento vuoi nella ricerca di regole (come succede nel giusnaturalismo positivistico, secondo cui l'etica viene derivata dalla norma giuridica) vuoi nell'agire (si pensi al neo-contrattualismo rawlsiano o al neo-utilitarismo), la dottrina sociale della Chiesa accoglie come suo punto archimedeo lo "stare con". Il senso dell'etica del bene comune, spiega che per poter comprendere l'azione umana, occorre porsi nella prospettiva della persona che agisce (Veritatis splendor, n. 78) e non nella prospettiva della terza persona (come fa il giusnaturalismo) ovvero dello spettatore imparziale (come Adam Smith aveva suggerito). Infatti il bene morale, essendo una realtà pratica, lo conosce primariamente non chi lo teorizza, ma chi lo pratica: è lui che sa individuarlo e quindi sceglierlo con certezza ogniqualvolta è in discussione.
Veniamo allora a parlare del principio del dono in economia. Cosa comporta, a livello pratico, l'accoglimento della prospettiva della gratuità entro l'agire economico? Risponde Papa Benedetto XVI che mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco" (Caritas in veritate, nn. 35-39). La conseguenza che discende dal riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella vita economica ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della reciprocità.
Assieme alla democrazia, la reciprocità - definita da Benedetto XVI "l'intima costituzione dell'essere umano" (n. 57) - è valore fondativo di una società. Anzi, si potrebbe anche sostenere che è dalla reciprocità che la regola democratica trae il suo senso ultimo.
In quali "luoghi" la reciprocità è di casa, viene cioè praticata ed alimentata? La famiglia è il primo di tali luoghi: si pensi ai rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle. Attorno alla propria famiglia si sviluppa quel rapporto donativo tipico della fraternità. Poi c'è la cooperativa, l'impresa sociale e le varie forme di associazioni. Non è forse vero che i rapporti tra i componenti di una famiglia o tra soci di una cooperativa sono rapporti di reciprocità? Oggi sappiamo che il progresso civile ed economico di un Paese dipende basicamente da quanto diffuse tra i suoi cittadini sono le pratiche di reciprocità. C'è oggi un immenso bisogno di cooperazione: ecco perché abbiamo bisogno di espandere le forme della gratuità e di rafforzare quelle che già esistono. Le società che estirpano dal proprio terreno le radici dell'albero della reciprocità sono destinate al declino, come la storia da tempo ci ha insegnato.
Qual è la funzione propria del dono? Quella di far comprendere che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e quindi che non è autenticamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia. Il Papa parla della "stupefacente esperienza del dono" (n. 34).
Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere; i beni di gratuità sono quelli che nascono da una obbligatio. Sono beni cioè che nascono dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e siamo tutti d'accordo sull'importanza della giustizia, ma la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell'agire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre la logica della giustizia è la logica dell'equivalenza. Ebbene, la Caritas in veritate ci dice che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che all'interno della prassi economica ci siano soggetti, che capiscano cosa sono i beni di gratuità, che si capisca, in altre parole, che abbiamo bisogno di far rifluire nei circuiti della nostra società il principio di gratuità.
Benedetto XVI invita a restituire il principio del dono alla sfera pubblica. Il dono autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell'identità personale sull'utile, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell'agire umano, ivi compresa l'economia. Il messaggio che la Caritas in veritate ci lascia è quello di pensare la gratuità, e dunque la fraternità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell'esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone.
La Caritas in veritate si sofferma sulle cause profonde (e non già sulle cause prossime) della crisi ancora in atto. Non è mia intenzione passarle in rassegna e mi limiterò a sintetizzare i tre principali fattori di crisi individuati e presi in esame.
Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell'ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, diversi Paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così l'economia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere d'acquisto; sulle imprese dell'economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l'azionista.
E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sull'intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale.
Il secondo fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell'ethos dell'efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica. Per un verso, ciò ha finito col legittimare l'avidità - che è la forma più nota e più diffusa di avarizia - come una sorta di virtù civica: il greed market che sostituisce il free market. Greed is good, greed is right ("l'avidità è buona; l'avidità è giusta"), predicava Gordon Gekko, il protagonista del celebre film del 1987, Wall Street.
Infine, la Caritas in veritate non manca di soffermarsi sulla causa delle cause della crisi: le specificità della matrice culturale che si è andata consolidando negli ultimi decenni sull'onda, da un lato, del processo di globalizzazione e, dall'altro, dall'avvento della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche. Un aspetto specifico di tale matrice riguarda l'insoddisfazione, sempre più diffusa, circa il modo di interpretare il principio di libertà. Come è noto, tre sono le dimensioni costitutive della libertà: l'autonomia, l'immunità, la capacitazione.
L'autonomia dice libertà di scelta: non si è liberi se non si è posti nella condizione di scegliere. L'immunità, invece, dice assenza di coercizione da parte di un qualche agente esterno. È, in buona sostanza, la libertà negativa (ovvero la "libertà da"). La capacitazione, (letteralmente: capacità di azione) infine, dice capacità di scelta, di conseguire cioè gli obiettivi, almeno in parte o in qualche misura, che il soggetto si pone. Non si è liberi se mai (o almeno in parte) si riesce a realizzare il proprio piano di vita.
Come si può comprendere, la sfida da raccogliere è quella di fare stare insieme tutte e tre le dimensioni della libertà: è questa la ragione per la quale il paradigma del bene comune appare come una prospettiva quanto mai interessante da esplorare.
Alla luce di quanto precede riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Ecco perché, senza nulla togliere agli indispensabili interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad impedire l'insorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene sulla matrice culturale che sorregge il sistema economico. Alle autorità di governo questa crisi lancia un duplice messaggio. In primo luogo, che la critica sacrosanta allo "Stato interventista" in nessun modo può valere a disconoscere il ruolo centrale dello "Stato regolatore". In secondo luogo, che le autorità pubbliche collocate ai diversi livelli di governo devono consentire, anzi favorire, la nascita e il rafforzamento di un mercato finanziario pluralista, un mercato cioè in cui possano operare in condizioni di oggettiva parità soggetti diversi per quanto concerne il fine specifico che essi attribuiscono alla loro attività. Penso alle banche del territorio, alle banche di credito cooperativo, alle banche etiche, ai vari fondi etici. Si tratta di enti che non solamente non propongono ai propri sportelli finanza creativa, ma soprattutto svolgono un ruolo complementare, e dunque equilibratore, rispetto agli agenti della finanza speculativa. Se negli ultimi decenni le autorità finanziarie avessero tolto i tanti vincoli che gravano sui soggetti della finanza alternativa, la crisi odierna non avrebbe avuto la potenza devastatrice che stiamo conoscendo.
Prima di concludere, desidero ringraziare il presidente del Senato della Repubblica Italiana, onorevole Schifani, per avermi consentito di illustrare a questo qualificato uditorio alcuni tratti dell'ultima enciclica di Benedetto XVI.
In qualche modo si tratta oggi come di un ritorno del Santo Padre in questa sede del Senato della Repubblica, ove l'allora cardinale Joseph Ratzinger tenne il 13 maggio 2004 nella Biblioteca del Senato stesso una non dimenticata lectio magistralis sul tema "Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani".
È interessante notare come in quell'intervento, tra l'altro, il futuro Pontefice toccava alcuni temi che ritroviamo oggi nella sua ultima enciclica. Pensiamo, ad esempio, all'affermazione della ragione profonda della dignità della persona e dei suoi diritti: essi - diceva l'allora cardinale Ratzinger - "non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, "ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore". Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull'essenza dell'uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all'uomo". Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ripete che "i diritti umani rischiano di non essere rispettati" quando "vengono privati del loro fondamento trascendente" (n. 56), cioè quando si dimentica che "Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità" (n. 29).
Ancora, nella lectio magistralis tenuta cinque anni or sono, l'attuale Pontefice ricordava che "un secondo punto in cui appare l'identità europea è il matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso ha dato all'Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e sofferenze.
L'Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata". Nella Caritas in veritate questo monito si allarga fino a divenire universale, diremmo globale, e raggiunge tutti responsabili della vita pubblica; così leggiamo, infatti, in essa: "Diventa (...) una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale" (n. 44).
Certo la Caritas in veritate si rivolge, come si afferma nel suo titolo ufficiale, a tutti i membri della Chiesa cattolica e "a tutti gli uomini di buona volontà". Eppure per i principi che illumina, per i problemi che affronta e per le indicazioni che offre, questo documento pontificio, che ha suscitato tanta attesa, prima, e poi tanta attenzione e tanto apprezzamento, in particolare in ambito sociale, politico ed economico, mi sembra che possa trovare una singolare eco in questa sede istituzionale che è il Senato della Repubblica. Sono convinto che, al di là delle differenze di formazione e di convinzioni personali, coloro che hanno la delicata e onorifica responsabilità di rappresentare il popolo italiano e di esercitare per suo mandato il potere legislativo, possono trovare nelle parole del Papa un'alta e profonda ispirazione nello svolgimento della loro missione, così da rispondere adeguatamente alle sfide etiche, culturali e sociali che oggi ci interpellano e che con grande lucidità e completezza l'enciclica Caritas in veritate ci pone davanti. Il mio augurio è che questo documento del Magistero ecclesiale, che ho cercato di illustrarvi almeno in parte quest'oggi, possa in questa sede trovare l'attenzione che merita e così portare frutti positivi e abbondanti per il bene di ogni persona e di tutta l'umana famiglia, a cominciare dalla cara Nazione italiana.
lunedì 27 luglio 2009
Lettera sulla moratoria internazionale sull'aborto del Presidente Gibertini
Caro direttore,
a parole oggi sono tutti contro l'aborto, l'obbligo di aborto, l'aborto selettivo, l'aborto per le nasciture femmine, l'aborto in Cina, l'aborto come contraccettivo.
Bello, plaudo anche io.
Vorrei però sottolineare due aspetti che, come volontario prima ed ora Presidente dell'unico Centro di aiuto alla vita di Roma, ho notato in questi anni:
1. sono veramente libere le mamme italiane che oggi abortiscono nei nostri ospedali?
2. come mai a parole sono tutti d'accordo ma poi quando c'è da tirare fuori aiuti economici non ci sono mai soldi?
Il nostro secondo figlio è nato al San Camillo di Roma e per 9 mesi, il periodo della nostra gravidanza, abbiamo visto, presso il sottoscala del Day Hospital Legge 194 del medesimo ospedale, centinaia di mamme alternarsi per l'aborto, una alla volta. Erano libere di scegliere per l'aborto quelle mamme? Non ho mai visto i tratti gioiosi della scelta di libertà sul loro volto.
Secondo punto.
Tante mamme vengono al Centro di aiuto alla vita di Roma chiedendoci una "carezza" economica per poter portare avanti la gravidanza, per pagare le bollette a fine mese, per comprare la carrozzina. Cerchiamo di aiutarle tutte: quelle ancora incinta e quelle che abbiamo assistito pre parto ma che si trovano ancora in una fase di bisogno.
Da quando sono presidente del Centro di aiuto alla vita di Roma ho bussato, in richiesta di aiuti economici, a tutti i politici romani che oggi leggo rilasciare dichiarazioni festose e trionfanti per la moratoria approvata.
Non ho racimolato un euro... ma ne ho visti tanti destinati ad altri o in altre direzioni...ed il nostro Cav non può più assistere le mamme a Roma anche perchè abbiamo appena subito un pesante furto con scasso ed abbiamo spese ordinarie da mantenere.... sarò forse io poco bravo nel chiedere? Le prossime mamme le indirizzerò, giornali in mano, a chi oggi si fa bello sui giornali.
Ero candidato nella Lista "Aborto? No grazie di Giuliano Ferrara" quindi per me questa della moratoria è una grande vittoria. Ma cominciamo ad aiutare le mamme anche in Italia, anche a Roma, a far di tutto per "rimuovere le cause economiche che possono indurre alla interruzione volontaria di gravidanza", come è scritto nella Legge 194 e come promise il Presidente Berlusconi nel suo discorso di insediamento.
So bene che l'aborto non è solo questione di soldi e che si deve insistere sul piano culturale ma che la mia esperienza mi ha insegnato che sono proprio le storie di difficoltà economiche quelle più strazianti.
Con i giornali di oggi in mano tornerò a bussare ai politici romani, e non solo, assieme alle mamme che ci chiederanno un aiuto per la loro "piccola e quotidiana moratoria".
Giorgio Gibertini
Presidente Centro di Aiuto alla Vita di Roma
a parole oggi sono tutti contro l'aborto, l'obbligo di aborto, l'aborto selettivo, l'aborto per le nasciture femmine, l'aborto in Cina, l'aborto come contraccettivo.
Bello, plaudo anche io.
Vorrei però sottolineare due aspetti che, come volontario prima ed ora Presidente dell'unico Centro di aiuto alla vita di Roma, ho notato in questi anni:
1. sono veramente libere le mamme italiane che oggi abortiscono nei nostri ospedali?
2. come mai a parole sono tutti d'accordo ma poi quando c'è da tirare fuori aiuti economici non ci sono mai soldi?
Il nostro secondo figlio è nato al San Camillo di Roma e per 9 mesi, il periodo della nostra gravidanza, abbiamo visto, presso il sottoscala del Day Hospital Legge 194 del medesimo ospedale, centinaia di mamme alternarsi per l'aborto, una alla volta. Erano libere di scegliere per l'aborto quelle mamme? Non ho mai visto i tratti gioiosi della scelta di libertà sul loro volto.
Secondo punto.
Tante mamme vengono al Centro di aiuto alla vita di Roma chiedendoci una "carezza" economica per poter portare avanti la gravidanza, per pagare le bollette a fine mese, per comprare la carrozzina. Cerchiamo di aiutarle tutte: quelle ancora incinta e quelle che abbiamo assistito pre parto ma che si trovano ancora in una fase di bisogno.
Da quando sono presidente del Centro di aiuto alla vita di Roma ho bussato, in richiesta di aiuti economici, a tutti i politici romani che oggi leggo rilasciare dichiarazioni festose e trionfanti per la moratoria approvata.
Non ho racimolato un euro... ma ne ho visti tanti destinati ad altri o in altre direzioni...ed il nostro Cav non può più assistere le mamme a Roma anche perchè abbiamo appena subito un pesante furto con scasso ed abbiamo spese ordinarie da mantenere.... sarò forse io poco bravo nel chiedere? Le prossime mamme le indirizzerò, giornali in mano, a chi oggi si fa bello sui giornali.
Ero candidato nella Lista "Aborto? No grazie di Giuliano Ferrara" quindi per me questa della moratoria è una grande vittoria. Ma cominciamo ad aiutare le mamme anche in Italia, anche a Roma, a far di tutto per "rimuovere le cause economiche che possono indurre alla interruzione volontaria di gravidanza", come è scritto nella Legge 194 e come promise il Presidente Berlusconi nel suo discorso di insediamento.
So bene che l'aborto non è solo questione di soldi e che si deve insistere sul piano culturale ma che la mia esperienza mi ha insegnato che sono proprio le storie di difficoltà economiche quelle più strazianti.
Con i giornali di oggi in mano tornerò a bussare ai politici romani, e non solo, assieme alle mamme che ci chiederanno un aiuto per la loro "piccola e quotidiana moratoria".
Giorgio Gibertini
Presidente Centro di Aiuto alla Vita di Roma
giovedì 23 luglio 2009
LETTERA AD AVVENIRE
MOVIMENTO PER LA VITA: UNA PRECISAZIONE
Caro Direttore, mi vedo costretto a chiederti di rettificare quanto scritto
nella lettera del presidente del Centro di aiuto alla vita di
Roma-S.Eugenio e pubblicato da Avvenire sabato scorso, 18 luglio. Il tema è
quello sulla moratoria contro l'obbligo di aborto, ma la rettifica che ti
chiedo non riguarda il merito quanto la forma della lettera che come firma
riporta in calce quella del «Presidente del Centro di aiuto alla vita di
Roma» e questo non corrisponde a verità. A Roma è attivo dal 1985 il
Segretariato sociale per la vita che in questi anni ha sottratto 2.500
bambini all'aborto. È vero che il nome non è esattamente quello di «Centro
di aiuto alla vita» ma questo succede spesso in giro per l'Italia e non
modifica la sostanza delle cose e la natura dell'azione svolta. Accanto ai
due Cav, operano a Roma da anni anche un Movimento per la vita
territoriale ed un Movimento per la vita universitario. Nel rispetto della
verità ma soprattutto per completezza di informazione su un servizio alla
vita reso in una città poliedrica e complessa, credo che non sia giusto che
il Cav nato nell'ambito dell'ospedale Sant'Eugenio, ugualmente meritorio
anche se molto più giovane, si «auto-promuova» unica realtà della
Capitale. Ti ringrazio dell'ospitalità e dell'attenzione di Avvenire sulla
quale sappiamo che il nostro lavoro può sempre contare.
Daniele Nardi
Responsabile Comunicazione Movimento per la vita
Caro Direttore, mi vedo costretto a chiederti di rettificare quanto scritto
nella lettera del presidente del Centro di aiuto alla vita di
Roma-S.Eugenio e pubblicato da Avvenire sabato scorso, 18 luglio. Il tema è
quello sulla moratoria contro l'obbligo di aborto, ma la rettifica che ti
chiedo non riguarda il merito quanto la forma della lettera che come firma
riporta in calce quella del «Presidente del Centro di aiuto alla vita di
Roma» e questo non corrisponde a verità. A Roma è attivo dal 1985 il
Segretariato sociale per la vita che in questi anni ha sottratto 2.500
bambini all'aborto. È vero che il nome non è esattamente quello di «Centro
di aiuto alla vita» ma questo succede spesso in giro per l'Italia e non
modifica la sostanza delle cose e la natura dell'azione svolta. Accanto ai
due Cav, operano a Roma da anni anche un Movimento per la vita
territoriale ed un Movimento per la vita universitario. Nel rispetto della
verità ma soprattutto per completezza di informazione su un servizio alla
vita reso in una città poliedrica e complessa, credo che non sia giusto che
il Cav nato nell'ambito dell'ospedale Sant'Eugenio, ugualmente meritorio
anche se molto più giovane, si «auto-promuova» unica realtà della
Capitale. Ti ringrazio dell'ospitalità e dell'attenzione di Avvenire sulla
quale sappiamo che il nostro lavoro può sempre contare.
Daniele Nardi
Responsabile Comunicazione Movimento per la vita
mercoledì 8 luglio 2009
CARITAS IN VERITATE per chi difende la VITA UMANA
CARITAS IN VERITATE –
Introduzione completa e stralci per chi difende la vita umana da concepimento a morte naturale
INTRODUZIONE
1. La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. L'amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, « si compiace della verità » (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell'amore e della verità e ci svela in pienezza l'iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6).
2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa — ammaestrata dal Vangelo — la carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr 1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, « Dio è carità » (Deus caritas est): dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas in caritate » (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate ». La verità va cercata, trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. Perché piena di verità, la carità può essere dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
5. La carità è amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità.
A questa dinamica di carità ricevuta e donata risponde la dottrina sociale della Chiesa. Essa è « caritas in veritate in re sociali »: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un'adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l'umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c'è coscienza e responsabilità sociale, e l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali.
6. « Caritas in veritate » è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in particolare, dettati in special modo dall'impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune.
La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » [1], intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa [2], parte integrante di quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni. Da una parte, la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono [3]. La “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo.
7. Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale [4]. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni [5], così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.
8. Pubblicando nel 1967 l'Enciclica Populorum progressio, il mio venerato predecessore Paolo VI ha illuminato il grande tema dello sviluppo dei popoli con lo splendore della verità e con la luce soave della carità di Cristo. Egli ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo [6] e ci ha lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza [7], vale a dire con l'ardore della carità e la sapienza della verità. È la verità originaria dell'amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e rende possibile sperare in uno « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » [8], in un passaggio « da condizioni meno umane a condizioni più umane » [9], ottenuto vincendo le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino.
A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l'Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent'anni, esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di unificazione.
9. L'amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.
La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non pretende « minimamente d'intromettersi nella politica degli Stati » [11]. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla. La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l'annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l'accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli [12].
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15. Altri due documenti di Paolo VI non strettamente connessi con la dottrina sociale — l'Enciclica Humanae vitae, del 25 luglio 1968, e l'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell'8 dicembre 1975 — sono molto importanti per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa. È quindi opportuno leggere anche questi testi in relazione con la Populorum progressio.
L'Enciclica Humanae vitae sottolinea il significato insieme unitivo e procreativo della sessualità, ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si accolgono reciprocamente nella distinzione e nella complementarità; una coppia, dunque, aperta alla vita [27]. Non si tratta di morale meramente individuale: la Humanae vitae indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II [28]. La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” [29].
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27. …..Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita.
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28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà [66] e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono [67]. L'accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l'apertura alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di una produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla vita.
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44. La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia [110]. Considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione dei genitori.
L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.
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51. ….La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.
Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell'ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la società.
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74. Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l'essere e come dal caso sia nata l'intelligenza [153]. Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone [154].
75. Già Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l'orizzonte mondiale della questione sociale [155]. Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la « cultura della morte » ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
(da Comitato Verità e Vita)
Introduzione completa e stralci per chi difende la vita umana da concepimento a morte naturale
INTRODUZIONE
1. La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. L'amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, « si compiace della verità » (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell'amore e della verità e ci svela in pienezza l'iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6).
2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa — ammaestrata dal Vangelo — la carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr 1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, « Dio è carità » (Deus caritas est): dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas in caritate » (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate ». La verità va cercata, trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. Perché piena di verità, la carità può essere dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
5. La carità è amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità.
A questa dinamica di carità ricevuta e donata risponde la dottrina sociale della Chiesa. Essa è « caritas in veritate in re sociali »: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un'adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l'umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c'è coscienza e responsabilità sociale, e l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali.
6. « Caritas in veritate » è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in particolare, dettati in special modo dall'impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune.
La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » [1], intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa [2], parte integrante di quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni. Da una parte, la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono [3]. La “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo.
7. Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale [4]. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni [5], così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.
8. Pubblicando nel 1967 l'Enciclica Populorum progressio, il mio venerato predecessore Paolo VI ha illuminato il grande tema dello sviluppo dei popoli con lo splendore della verità e con la luce soave della carità di Cristo. Egli ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo [6] e ci ha lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza [7], vale a dire con l'ardore della carità e la sapienza della verità. È la verità originaria dell'amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e rende possibile sperare in uno « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » [8], in un passaggio « da condizioni meno umane a condizioni più umane » [9], ottenuto vincendo le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino.
A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l'Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent'anni, esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di unificazione.
9. L'amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.
La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non pretende « minimamente d'intromettersi nella politica degli Stati » [11]. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla. La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l'annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l'accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli [12].
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15. Altri due documenti di Paolo VI non strettamente connessi con la dottrina sociale — l'Enciclica Humanae vitae, del 25 luglio 1968, e l'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell'8 dicembre 1975 — sono molto importanti per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa. È quindi opportuno leggere anche questi testi in relazione con la Populorum progressio.
L'Enciclica Humanae vitae sottolinea il significato insieme unitivo e procreativo della sessualità, ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si accolgono reciprocamente nella distinzione e nella complementarità; una coppia, dunque, aperta alla vita [27]. Non si tratta di morale meramente individuale: la Humanae vitae indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II [28]. La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” [29].
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27. …..Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita.
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28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà [66] e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono [67]. L'accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l'apertura alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di una produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla vita.
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44. La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia [110]. Considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione dei genitori.
L'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.
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51. ….La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.
Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell'ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la società.
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74. Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l'essere e come dal caso sia nata l'intelligenza [153]. Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone [154].
75. Già Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l'orizzonte mondiale della questione sociale [155]. Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la « cultura della morte » ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
(da Comitato Verità e Vita)
giovedì 2 luglio 2009
IL CONTROPIEDE DI BENEDETTO XVI
Senza conformismi
Fede adulta il contropiede di Benedetto
Siamo tutti d’accordo: ci vuole un bel coraggio per essere anticonformisti, ma attenzione alle apparenze. Quest’affermazione oggi vive infatti un singolare rovesciamento concettuale, del quale è bene prendere coscienza. Il conformismo che si va stendendo come una glassa dolciastra sulla cultura diffusa non è certamente costituito da verità inossidabili – semmai dipinte come zavorra di un passato 'ideologico' – ma sembra piuttosto una miscela di opinioni impalpabili e fluttuanti fatte passare ormai come unica moneta spendibile nel confronto pubblico. Il pulviscolo delle idee tutte equivalenti, nessuna delle quali può permettersi una qualsiasi pretesa di verità, oscura la vista come una nebbia e consiglia sottilmente di attestarsi attorno a un pensiero minimo, magari banale e ovvio ma difficilmente soggetto a smentite plateali, su cui si può star certi che non si avranno noie. Tutti d’accordo su una ragionevolezza apparente, e guai a chi stona.
Eccola, allora, la vera impresa per intelletti coraggiosi: risalire la torrenziale cascata dei luoghi comuni, che erode ogni punto fermo ed esalta l’uniformità del pensiero medio. Sfidare la caduta libera dell’intelligenza, per mettere in sicurezza l’umano. Al noioso conformismo dei nostri tempi, più paralizzante delle sabbie mobili, deve aver pensato Benedetto XVI quando domenica sera, nell’omelia con la quale ha chiuso l’Anno Paolino, ha tratteggiato con parole memorabili la figura del cristiano animato da una «fede adulta»: definizione logora e stanca, che il Papa ha bonificato una volta per tutte del suo retrogusto contestativo restituendola alla lettura vigorosamente evangelica impressa da san Paolo in persona quando – scrivendo agli Efesini – mise in guardia dal restare come «fanciulli in balia delle onde, trasportati di qua e di là da qualsiasi vento di dottrina ». Niente di più attuale. Lo «slogan diffuso» – sono parole del Papa – dipinge oggi come «matura» la fede del cattolico che «non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere», e che ha il «'coraggio' di esprimersi contro il magistero della Chiesa ».
Bel coraggio davvero, questa «fede 'fai da te'»: uno zapping religioso e morale che odora di consumismo adolescenziale più che di 'maturità' cosciente di sé. Con sottile ironia, Benedetto annota che a contestare la Chiesa «in realtà non ci vuole del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso». Battuta impagabi-le, che da sola fa giustizia delle sfibranti ovvietà di chi alla vigilia dell’enciclica sociale dà per rottamata la 'questione antropologica': come se un pronunciamento pensionasse tutti gli altri. Il Papa rimette al suo posto ciò che fa 'grande' un credente enumerando che «fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento » e «riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore».
Lo spieghiamo anche ai nostri figli: adulto è – o diventa tale – chi sa dire qualche no che gli costa, chi «non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente», chi «s’oppone ai venti della moda». Questi tratti inconfondibili di una personalità formata – e nessun pedagogista oserebbe smentirlo – sono gli stessi che nelle parole papali svelano una fede matura, consapevole che «questi venti – come ci ricorda ancora Benedetto – non sono il soffio dello Spirito Santo» ma altre brezze che spingono su una rotta diversa da quella di Cristo.
Che occorra ardimento nel percorrerla tra gli applausi generali è davvero comico sostenerlo, eppure – fateci caso – è quello che ogni giorno ci viene ripetuto. Per fortuna, di anticonformisti veri almeno uno siamo sicuri di averlo incontrato. Ed è là, al timone che fu di Pietro.
Francesco Ognibene
Fede adulta il contropiede di Benedetto
Siamo tutti d’accordo: ci vuole un bel coraggio per essere anticonformisti, ma attenzione alle apparenze. Quest’affermazione oggi vive infatti un singolare rovesciamento concettuale, del quale è bene prendere coscienza. Il conformismo che si va stendendo come una glassa dolciastra sulla cultura diffusa non è certamente costituito da verità inossidabili – semmai dipinte come zavorra di un passato 'ideologico' – ma sembra piuttosto una miscela di opinioni impalpabili e fluttuanti fatte passare ormai come unica moneta spendibile nel confronto pubblico. Il pulviscolo delle idee tutte equivalenti, nessuna delle quali può permettersi una qualsiasi pretesa di verità, oscura la vista come una nebbia e consiglia sottilmente di attestarsi attorno a un pensiero minimo, magari banale e ovvio ma difficilmente soggetto a smentite plateali, su cui si può star certi che non si avranno noie. Tutti d’accordo su una ragionevolezza apparente, e guai a chi stona.
Eccola, allora, la vera impresa per intelletti coraggiosi: risalire la torrenziale cascata dei luoghi comuni, che erode ogni punto fermo ed esalta l’uniformità del pensiero medio. Sfidare la caduta libera dell’intelligenza, per mettere in sicurezza l’umano. Al noioso conformismo dei nostri tempi, più paralizzante delle sabbie mobili, deve aver pensato Benedetto XVI quando domenica sera, nell’omelia con la quale ha chiuso l’Anno Paolino, ha tratteggiato con parole memorabili la figura del cristiano animato da una «fede adulta»: definizione logora e stanca, che il Papa ha bonificato una volta per tutte del suo retrogusto contestativo restituendola alla lettura vigorosamente evangelica impressa da san Paolo in persona quando – scrivendo agli Efesini – mise in guardia dal restare come «fanciulli in balia delle onde, trasportati di qua e di là da qualsiasi vento di dottrina ». Niente di più attuale. Lo «slogan diffuso» – sono parole del Papa – dipinge oggi come «matura» la fede del cattolico che «non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi pastori ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere», e che ha il «'coraggio' di esprimersi contro il magistero della Chiesa ».
Bel coraggio davvero, questa «fede 'fai da te'»: uno zapping religioso e morale che odora di consumismo adolescenziale più che di 'maturità' cosciente di sé. Con sottile ironia, Benedetto annota che a contestare la Chiesa «in realtà non ci vuole del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso». Battuta impagabi-le, che da sola fa giustizia delle sfibranti ovvietà di chi alla vigilia dell’enciclica sociale dà per rottamata la 'questione antropologica': come se un pronunciamento pensionasse tutti gli altri. Il Papa rimette al suo posto ciò che fa 'grande' un credente enumerando che «fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento » e «riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore».
Lo spieghiamo anche ai nostri figli: adulto è – o diventa tale – chi sa dire qualche no che gli costa, chi «non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente», chi «s’oppone ai venti della moda». Questi tratti inconfondibili di una personalità formata – e nessun pedagogista oserebbe smentirlo – sono gli stessi che nelle parole papali svelano una fede matura, consapevole che «questi venti – come ci ricorda ancora Benedetto – non sono il soffio dello Spirito Santo» ma altre brezze che spingono su una rotta diversa da quella di Cristo.
Che occorra ardimento nel percorrerla tra gli applausi generali è davvero comico sostenerlo, eppure – fateci caso – è quello che ogni giorno ci viene ripetuto. Per fortuna, di anticonformisti veri almeno uno siamo sicuri di averlo incontrato. Ed è là, al timone che fu di Pietro.
Francesco Ognibene
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