lunedì 9 gennaio 2012

Niente Down in Danimarca: vengono uccisi prima


Niente Down in Danimarca. Quando è la follia ad essere perfetta. Nel suo prometeico tentativo di diventare una "società perfetta", la Danimarca sembra procedere a tappe forzate nel progetto di eliminare tutti i soggetti affetti dalla sindrome di Down. Nel 2004 il governo danese ha impresso una possente spinta a questa battaglia eugenetica offrendo la possibilità di ricorrere gratuitamente alle diagnosi prenatali per l’identificazione, e la conseguente eliminazione a mezzo aborto, dei nascituri "difettosi".
L’obiettivo pare sia quello di raggiungere il primato di unico Paese al mondo «Down Syndrome Free». Esiste anche una

data entro cui realizzare il sogno: il 2030. A rivelarlo è stato, sul finire di quest’anno, un articolo del giornalista Nikolaj Rytgaard apparso sul quotidiano danese Berlingske, con l’inquietante affermazione che «presto nascerà l’ultimo bambino danese affetto dalla sindrome di Down».
Se si considera, poi, che il mezzo da utilizzare per entrare nel Guinness dei primati è l’eliminazione fisica dei feti rischia di apparire alquanto sinistra l’entusiastica definizione di «impresa davvero straordinaria» data al progetto da Niels Uldbjerg, professore di Ginecologia e ostetricia all’Università di Aarhus. È l’eterna tentazione dell’uomo di raggiungere la perfezione senza Dio. Un sogno che è destinato – come la storia
dimostra sempre – a trasformarsi in incubo. Quel campione di realismo cristiano che fu Agostino d’Ippona l’aveva capito già 1.600 anni fa, quando, nel suo scritto Contra Academicos, affermava che l’uomo non può essere perfetto se non raggiunge il suo fine, che è quello di cercare con tutto l’impegno la verità di Dio. Ma spiegava pure che per quanto l’uomo cerchi di essere perfetto, è tuttavia destinato a restare sempre "umanamente uomo": «Perfectum, sed tamen hominem».Tornando al tentativo danese, risulta difficile sottrarsi a qualche interrogativo. Siamo davvero sicuri che possa considerarsi migliore una società composta da esseri umani geneticamente perfetti, in cui non ci sia più bisogno di sperimentare alcun sentimento di amore,
di carità, di solidarietà nei confronti di soggetti deboli e indifesi, nella quale non sia più necessario comprendere e accogliere chi appare fisicamente diverso? In assenza di un valore etico, su cosa si fonda il criterio per stabilire chi debba far parte della razza geneticamente superiore autorizzata a eliminare quella geneticamente inferiore? Chi determina i requisiti per ammettere una persona nella "società perfetta"? E
chi garantisce i limiti di quei requisiti? Chi può escludere, ad esempio, che il prossimo passo in Danimarca non sia l’eliminazione dei nascituri affetti da diabete, da malattie cardiache, da cecità...? Siamo proprio sicuri che per raggiungere la perfezione occorra far prevalere la logica spartana del Monte Taigeto rispetto all’esortazione evangelica di amare il prossimo come se stessi? Molti hanno avuto la fortuna di ascoltare
all’ultimo Meeting di Rimini la toccante testimonianza di Clara Gaymard, la figlia di Jérôme Lejeune, scopritore della sindrome di Down, detta anche trisomia 21. Parlando dei propri ricordi personali, Clara ha raccontato che un giorno un ragazzo trisomico di dieci anni si presentò allo studio di suo padre, piangendo convulsamente. La mamma di quel ragazzo spiegò che il figlio aveva visto un dibattito in televisione, in cui si
discuteva della possibilità di eliminare i nascituri affetti da sindrome di Down. Il ragazzo gettò le braccia al collo di Lejeune, supplicandolo: «Dottore, vogliono ucciderci tutti; la prego ci protegga, siamo troppo deboli, non sappiamo farlo da soli!». Fu da allora che Lejeune decise di dedicare la sua vita alla difesa di quelle fragili esistenze. Oggi Lejeune, purtroppo, non c’è più. Ma gli sterminatori di quelli che lui definiva «i
miei piccoli» sono ancora in circolazione, e invocano sempre lo stesso pretesto: la realizzazione di una società perfetta. Quella in cui, ovviamente, oltre all’imperfezione umana dev’essere bandito Dio.
di Gianfranco Amato